America divisa su Israele ma il futuro non sarà di guerra: l’analisi
“Chiedo il cessate il fuoco, ma Israele ha comunque diritto a difendersi.” le parole di Biden, presidente degli Stati Uniti d’America, storico alleato di Israele, che vacilla su una situazione realmente difficile e drammatica ma nel mentre popolazione e grande fetta politica, entrambe, si sono divise e una parte condanna senza mezzi termini la scelta militare di Israele.
A Israele si impone lo stop ma i missili contro di lei sono 3500
Un serpente che si morde la coda: 3500 missili su una nazione che “se l’è andata a cercare” è un’affermazione fin troppo facile da fare. Fra varie affermazioni completamente sbagliate talvolta frutto di un odio tramandato ed altre contrarie che rispediscono al mittente le accuse, l’analisi andrebbe fatta in un’atmosfera non giudicatoria: anche perché, se andassimo a vedere nel passato, qualsiasi Paese potrebbe avere l’intenzione di vendicarsi verso un altro, per angherie subìte o parti geografiche perse. E questa è solo una questione di ignoranza e scarse attitudini politiche.
Sin dall’antichità Gerusalemme fu centro di culto e di potere e per questo fu contesa nelle varie epoche da ebrei, babilonesi, persiani, romani, islamici e cristiani. Considerata dall’amministrazione inglese un territorio separato, nel piano di spartizione dell’ONU del 1948 fu stabilito che Gerusalemme rimanesse sotto controllo internazionale. Dal 1948 gli israeliani hanno scacciato la maggior parte degli arabi (il 40% della popolazione) che vivevano nel settore Ovest e hanno confiscato e in parte demolito le loro case. Nel 1967 Israele annette ufficialmente tutta Gerusalemme dichiarata capitale di Israele e vi trasferisce da Tel Aviv il governo nazionale. La comunità internazionale non riconosce questa annessione e quasi tutti gli stati mantengono la loro ambasciata a Tel Aviv. Nel contempo gli israeliani iniziano a demolire case, a confiscare terre palestinesi e a edificare nuovi alloggi anche a Gerusalemme Est e dintorni. Nel 1980 gli israeliani riunificano ufficialmente Gerusalemme. Con la risoluzione 478 l’ONU dichiara tale decisione nulla e non avvenuta.
E’ chiaro che queste siano scelte di un governo sovrano e al contempo errori di valutazione rispetto ad un contesto più ampio, ma comunque rappresenta un passato che proveniva essenzialmente da un periodo molto difficile di per sé.
Di contro, l’esercizio di un’annessione diretta contro le decisioni stesse dell’ONU dimostra non la iattanza di un Paese ma l’errore di valutazione di una classe dirigente che non comprende o non ha compreso a fondo la possibilità di danni collaterali sul piano diplomatico.
Le alture del Golan e nello specifico la Cisgiordania ne dimostrano l’esempio che la necessità di un nuovo programma politico con nuove figure, forse, potrebbe determinare un cambio di direzione verosimilmente più positiva.
Riconoscere lo stato di Palestina? Lo pensano gli stessi ebrei
Quanto segue è un articolo del 2014 talmente preciso da essere attualissimo: Giorgio Gomel, membro del Comitato direttivo di Jcall, un’associazione di ebrei europei impegnata nel sostegno a una soluzione “a due Stati” del conflitto israelo-palestinese.
L’immobilismo del governo di Israele, il fallimento dei negoziati condotti con la mediazione Usa fino alla scorsa primavera, la guerra inutilmente distruttrice fra Israele e Hamas, la continua espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania e il ritorno alla violenza soprattutto a Gerusalemme hanno infatti spinto l’Autorità palestinese a ottenere il riconoscimento della Palestina da parte dell’Onu.
Tutto ciò è una sconfitta per tutti e un motivo di frustrazione profonda per coloro, come chi scrive, che ritengono che una soluzione del conflitto negoziata tra le parti basata sul principio di “due stati per due popoli” sia una necessità pragmatica e non rinviabile sia per gli israeliani che per i palestinesi.
Palestina, osservatore non membro dell’Onu
Tre anni fa la Palestina divenne paese osservatore “non membro” dell’Onu. In quella occasione, un documento di JCALL esprimeva preoccupazione unita a un appiglio di speranza.Preoccupazione per l’isolamento di Israele, che si è fatto nel frattempo via via più acuto nel mondo anche nei rapporti con gli Stati Uniti e l’Unione europea, ma anche fiducia che la ripresa di negoziati diretti fra le parti poi avviatisi nel 2013 avrebbero condotto a un accordo anche parziale sulle tante questioni irrisolte – confini, insediamenti, meccanismi di sicurezza, rifugiati, lo status di Gerusalemme.
Con il riconoscimento di uno stato, il conflitto diventerebbe un conflitto più “normale” , di natura politico-territoriale fra due stati, invece che fra l’occupante e un movimento irredentista sul quale gravano ancora l’eredità guerrigliera dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina e le istanze dei profughi palestinesi dispersi nei paesi del Medio Oriente.
Riconoscimento reciproco
Inoltre, il riconoscimento di uno stato palestinese sarebbe il compimento della risoluzione 181 dell’Onu del novembre 1947 che prefigurava la spartizione della Palestina-Eretz Israel fra uno stato ebraico e uno arabo. Per Israele ciò sarebbe una conferma del riconoscimento da parte della comunità delle nazioni dell’esistenza legittima dello stato ebraico nelle frontiere scaturite dalla guerra d’indipendenza del 1948-49.A riconoscere tutto ciò sarebbero anche i paesi arabi e islamici che ancora oppongono un rifiuto ideologico.
Come affermano i firmatari israeliani – intellettuali, ex- ministri e parlamentari – di un appello ai Parlamenti e governi europei in favore del riconoscimento: “l’esistenza e la sicurezza di Israele dipendono dalla creazione di uno stato palestinese accanto e in rapporti di buon vicinato con Israele. Non c’è alternativa al riconoscimento reciproco delle due entità nazionali, sulla base delle frontiere del 4 giugno 1967, con modifiche territoriali minori e concordate”.
Gesto simbolico
Allorché l’Autorità nazionale palestinese (Anp) chiede alle nazioni di riconoscere lo stato di Palestina e i parlamenti e governi dei paesi dell’Ue dibattono del tema, ritengo che tale atto sia coerente con il sostegno della soluzione “ a due stati”.Certamente si tratta di un gesto in larga parte simbolico, dato che il controllo del territorio dell’eventuale stato sarebbe di fatto limitato all’area A della Cisgiordania (appena il 20%). L’area B, pur amministrata dall’Anp, resta sotto la giurisdizione militare israeliana. L’area C, che occupa il 60% della Cisgiordania, pur scarsamente popolata, è sotto il pieno controllo di Israele.
Inoltre Gaza resta nelle mani di Hamas e priva di un legame fisico e politico con la Cisgiordania, nonostante la formazione di un governo unitario, in virtù del quale la stessa Anp dovrebbe essere riconosciuta come unico governo legittimo della Palestina nella sua interezza (Cisgiordania e Gaza) e l’impegno ad affidare alle sue forze di sicurezza il controllo dei punti di passaggio fra Israele, l’Egitto e la striscia di Gaza.
Questo atto simbolico dovrebbe essere sostenuto da un’azione congiunta di pressione degli Stati Uniti e dei paesi della Ue con il ricorso ad adeguati “bastoni” e “carote” per la ripresa di negoziati seri fra le parti.
Andrebbe in questo senso una risoluzione che, secondo notizie di stampa, Francia, Germania e Gran Bretagna sarebbero sul punto di presentare al Consiglio di sicurezza. Essa includerebbe i parametri di un accordo basato sulla soluzione “a due stati” e un impegno a giungervi entro due anni; solo allora inizierebbe il ritiro di Israele dalla Cisgiordania.
La realtà: i popoli sono stufi di farsi la guerra per scelte politiche
Tutti in realtà sono divisi: a partire da una parte dello stesso popolo israeliano che si scaglia contro Netanyahu fino ad una grande tranche dello stesso popolo palestinese che condanna Hamas.
Tra centinaia di morti e migliaia di feriti sotto una pioggia di missili, non è più possibile ma nemmeno accettabile che per rimanere sulla propria posizione di comando, due fazioni pongano sul tavolo scuse legate a territori e rancori sopiti dei quali loro non hanno nemmeno ricordo: non è credibile che le realtà siano queste e di conseguenza l’unica possibile chiave di lettura è la necessità di alcuni di continuare ad esistere politicamente e per farlo sono intenzionati a perdere molto di più di una semplice poltrona.
La dimostrazione che la religione in realtà non c’entra nulla
Mentre gli scontri e le reciproche accuse continuano a susseguirsi, quasi in punta di piedi viene fuori una realtà fatta da stessi israeliani e palestinesi che dopo tutti questi anni sono stufi, sono troppo stanchi di vedere i propri cari morire per scelte strategiche di politici che si scontrano per mantenere le proprie leadership impiegando anche l’uso delle forze militari.
La realtà è che i due governi non dicono ai popoli cosa accade realmente e di conseguenza i popoli stessi non riescono a comprendere i fatti e paradossalmente due governi diversi si troveranno a breve due popoli diversi ma uniti contro la guerra e intenti a spodestarli in funzione di nuovi governi che facciano della diplomazia la vera chiave di volta.